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Post Mortem

Il primo American Pie non è un film scemo

Nella serie di articoli Raccontare a Modo ci proponiamo di rivalutare, con un’analisi mai seriosa ma sempre puntuale, opere narrative fraintese: dal film “irregolare” che pubblico generalista e critica colta considerano pregiudizialmente pattume, al capolavoro letterario bistrattato perché appartenente a un genere minore, all’album musicale dimenticato senza merito, al videogioco storico perso nelle nebbie del tempo (nella sezione Recensioni Morte facciamo il contrario: infamiamo con burloneria e turpiloquio torrenziale opere – prevalentemente film – incensate ben oltre gli oggettivi meriti).

L’idea di fondo è che dietro buona parte delle analisi mainstream risieda approssimazione e scarsa conoscenza tecnica della materia giudicata; sia quando si incensa, sia quando si bistratta. Non annoieremo eccessivamente in questa sede (per ragionamenti più intrippanti e sociologicamente elaborati vi rimandiamo al libro di Tempi Morti, in uscita nelle prossime settimane): basti qui dire che ci pare che la qualità della critica non sia mai stata infima come oggi – tra testate semiprofessionali-qualunquiste-gnurenti e grandi firme impoverite dal livello putrido del dibattito digitale – e che al contempo la capacità del pubblico di comprendere in profondità meccanismi e livelli sottotestuali dello storytelling sia giunta a un depauperamento senza ritorno.

Responsabili, manco a dirlo, le modalità di fruizione dei contenuti mediatici – in particolare seriali – che si dilatano sempre più in una dimensione orizzontale sovrabbondante – il famoso binge watching – e sempre meno lungo l’asse della profondità e della comprensione ragionata. Il tutto in salsa uberdigitale e socialcentrica – vez io la serie la vedo per commentarla con gli amiconi e coi 289479375 follwer sui social, poi sticazzi se perdo 7 scene ogni 9 per chattare – per imputridire ulteriormente le acque.

La questione è, e con questo punto cardine del nostro manifesto finiamo il panegirico, che non conta quanto si vede e quanti contenuti si vedono (zio bono vez sto mese ho visto 4383905797 serie fighissime cazzofiga le devi vedere anche tu) ma cosa si vede e, soprattutto, come si vede. Se si vede male e senza consapevolezza per anni, in fondo non si avrà mai guardato. Momento boomer: quando ci si riconnetterà con l’idea che entrare in profondità in un contenuto narrativo richiede fatica e cervello ben acceso e si sfanculerà l’adagio del quando vedo un film/leggo un libro/ascolto un brano musicale voglio spegnere il cervello, allora si tornerà a godere in profondità della magia dello storytelling e si romperà il circolo vizioso per cui gli autori di contenuti narrativi (da Hollywood-Netflix in giù) propinano merda in buona parte perché è l’audience a richiedere – più o meno consapevomente –  merda. E si avranno strumenti oggettivi per valutare con costrutto se un film/una serie è merda oppure no, accantonando infine sterili questioni di superficie e commenti randomici alla boia del pene (eh ma il film su Freddie Mercury è belliffimo perché Rami Malek è braviffimo perché racconta una ftoria vera ed è andata proprio cofì e se a te non piace sei una testa di caffo e uiuillrachiu è la canfone più belliffimiffima dei Queen).

Noi non potevamo che partire da American Pie 1, in questa galoppata cazzodurista contro il qualunquismo cinematografico; American Pie 1 che è il film per eccellenza considerato di merda per tutti i motivi sbagliati e che invece non è un film di merda proprio per nulla, per tutti i motivi giusti.

Sesso, amore e linea d’ombra: American Pie come Coming of Age

So, bye-bye, Miss American Pie

Drove my Chevy to the levee, but the levee was dry

And them good ol’ boys were drinkin’ whiskey and rye

(Don Mc Lean, American Pie)    

La storia del film è arcinota ai più: i 4 protagonisti – Jim, Oz, Kevin e Finch – liceali accomunati dalla sfiga/inettitudine con le ragazze, fanno un patto dopo l’ennesimo filotto di insuccessi: dovranno perdere la verginità entro la fine dell’ultimo anno di high school; 3 settimane di tempo per arrivare a una fetta dell’agognata Torta Americana. L’interesse del film non è tanto nella situazione scatenante e nella chiosa – in cui, come scontato, tutti centrano l’obiettivo – ma nel differente dipanarsi dei percorsi di Coming (parola mai così opportuna) of Age dei 4 protagonisti, rappresentanti l’intero spettro dell’emotività adolescenziale e, in nuce, di quella adulta. La confezione stilistica – poppe al vento, turpiloquio, volgarità a secchiate, genitori macchiette – è in apparenza pura superficie, ma in realtà serve alla perfezione, in chiave prettamente narratologica, la storia e i suoi sottotesti (in senso qui cinematografico e intesi cioè come “mondo valoriale e morale  sommerso che si cela tra le pieghe della storia”; e non di meri doppi sensi).

American Pie, come già American Graffiti o Stand By Me – tra gli esempi più alti nel filone del racconto di formazione cinematografico – si posiziona nel vortice che è il passaggio tra adolescenza ed età adulta; e dove American Graffiti usava il sesso in modo più sfumato e si concentrava più sulla malinconia di vivere che subentra con la consapevolezza e dove Stand By Me faceva coincidere l’acquisizione della maturità con l’accettazione della morte, American Pie risolve – almeno in apparenza – il passaggio adolescente-adulto nel movimento tra vergine ed esperienziato. Nel mondo di American Pie tutto è sesso, tutto è sessualizzato perché, con occhio veristico dietro il parossismo, s’intercetta quell’angolo di vita post-innocenza e pre-rassegnazione in cui la spinta verso il sesso è il fulcro dell’universo: lo slancio verso l’ignoto della carnalità, una brama che divora tutto e che è destinata a diventare mera tessera – in uno dei paradossi più drammatici dell’esistenza umana – del puzzle dell’età adulta, fetta di una torta in cui il sesso perde la funzione accentratrice-salvifica che aveva in veste di simulacro adolescenziale (Jim a un certo punto dice, profetico: Non ho mai fatto sesso e non ne posso già più).

Differenti percorsi, dicevamo. Partiamo con una demistificazione: in termini meramente tecnico-cinematografici – se il protagonista è il personaggio con l’arco narrativo e di trasformazione più ampio; e lo è – il protagonista di American Pie 1 è Oz, non Jim. Oz che da macho “decapitatore di avversari” sul campo di lacrosse si completa attraverso la scoperta del lato più sensibile di sé. Distribuiamo i ruoli: detto di Oz protagonista, Jim ha la funzione di co-protagonista e prima spalla comica, Kevin è il catalizzatore del cambiamento e il terzo protagonista, Finch la seconda spalla comica e il protagonista con l’arco narrativo più striminzito, Stifler la terza spalla comica, nonché l’incarnazione della sessualità esasperata cui gli altri 4 mirano e al contempo un satellite nel suo percorso vicino ma esterno al gruppo: Stifler è l’asintoto di Oz, Jim, Kevin e Finch, che a lui tendono e vorrebbero in parte essere lui, ma più si avvicinano alla dimensione della sessualità esplosa rappresentata da Stifler, più trovano percorsi autonomi che li rendono personaggi compiuti attraverso un’evoluzione valoriale, oltre che carnale, stratificata. Stifler è già risolto, è una pura funzione narrativa-comica: inizia e finisce il film esattamente nella stessa condizione emotivo-morale e non vive conflitti (quelli interiori che portano al cambiamento e che fanno un personaggio in senso narrativamente detto); si proverà a lavorare su di lui in questa direzione, in modo fallimentare, in American Pie 3: Il Matrimonio.

Jim invece, pur non cambiando quanto Oz, evolve verso l’acquisizione della maturità come radicamento e affermazione di sé. A inizio film assistiamo a un catalogo di cose che Jim non è e non sa fare, quasi fosse un ectoplasma: non è attraente, non piace alle ragazze, non sa parlare alle donne, non ha gusto nel vestirsi, è anonimo e poco considerato dai compagni di scuola. L’asse di sviluppo del personaggio Jim va dall’alveo materno – la scomparsa dentro l’altro – alla presa di coscienza di sé come uomo e come essere sessuato anche tramite il confronto col padre. Il personaggio si mostra al pubblico essenzialmente tramite gag – un mix tra il Ben Stiller di Ti Presento i Miei e un Paperino pornomane – ma i turning point che ne segnano il cambiamento sono disseminati in bella vista con più raffinatezza di quanto si creda.

L’unica scena con la madre come personaggio attivo è quella comica che apre il film: Jim è nella sua cameretta di adolescente e si sta apprestando a masturbarsi; la madre invade la scena e lo spazio/momento privato di Jim per dare al figlio il “bacino della buonanotte” che questi accetta controvoglia; la climax della sequenza – una delle più squisitamente grevi del cinema recente – non la roviniamo a chi non l’avesse vista (e la linkiamo qui). Quel che ci interessa è puntualizzare come la presenza femminile in questa scena-madre (in tutti i sensi) abbia una precisa giustificazione sottotestuale (Jim vive l’ingresso della madre in stanza come intrusione): il film inizia in quella fase terminale dell’adolescenza in cui all’attrazione quasi metafisica verso il grembo materno, ora respinto, si sostituisce un’esigenza di materialità ferale, pure volgare. In cui, tornando al tema principale esplicitato sopra, il sesso – qui rappresentato dal porno – diventa il nucleo del pianeta-adolescente.

La palla, nel resto del film, passa al padre di Jim, che funge da punto di fuga per la corsa verso la rivendicazione di sé del figlio. Gag triviale dopo gag triviale Papà Levenstein (che non a caso si chiama Noah-Noè) guida Jim nel tentativo, infine coronato, di rivendicare il suo essere uomo e di “diventare qualcosa”, di liberarsi da quella condizione iniziale ectoplasmatica che è la cifra dell’adolescenza, in cui si è tutto e niente allo stesso tempo. E così Jim, toccato il fondo per aver volato troppo alto (con la semidivina Nadia) a metà film, corona il suo desiderio sessuale entrando in una dimensione materica e di reciproca accettazione – di limiti estetici e idiosincrasie – con una ragazza – Michelle – che esteticamente è il suo doppio femminile; ma dove lui non ha mai provato/conosciuto/toccato, lei ha già visto, fatto, tastato (al campo della banda…).

Finch segue un arco simile, ma più abbozzato. L’alter ego Pausa Merda, affibbiatogli da Stifler, segnala l’incapacità di abbandonarsi alle funzioni primarie nei bagni scolastici; un’ulteriore declinazione triviale del limbo infanzia-maturità proprio anche di Jim. Finch esplicita il topos dello sfasamento adolescenziale tra costruzione di sé e percezione che gli altri hanno di noi. È un personaggio scisso-doppio: tra Finch e Pausa Merda, tra la cifra sincera di sfigatone letterato e il desiderio di apparire cool, tra l’evanescenza e la dimensione leggendaria che raggiunge quando l’amica Jessica gli fa pubblicità (pagata dallo stesso Finch in un tentativo fallimentare di emanciparsi da sé) con le compagne di liceo, vendendolo come adone e mago del sesso. 

Forzato da un lassativo propinatogli dallo stesso Stifler, Finch si libera della parte Pausa Merda in una delle famigerate scene crasse della saga (con tanto di diarrea torrenziale in un bagno della scuola). L’averla fatta nei bagni dell’istituto – ma avete visto quanto fanno schifo? esclama a inizio film –, per quanto costretto dal lassativo, diventa simbolo dell’uscita dalla zona di comfort. Un passo verso l’adulto completato dalla perdita della verginità con la famigerata Mamma di Stifler (con tanto di Mrs. Robinson in sottofondo, citazione da Il Laureato che è uno dei non rari momenti gustosamente cinefili offerti dal film). Non credevo fossi così bravo! Neanche io,è lo scambio di battute che qualifica il loro esilarante rapporto sessuale, che certifica – in modo in apparenza scemo quanto si vuole, ma ben calibrato, preparato ed esposto – l’entrata – fisica; propriamente anatomica, in questo caso – nel mondo degli adulti. Che è fatta dell’abbandono della pretesa di essere altro da sé, di automitizzarsi, e del proponimento di essere null’altro che sé, coi limiti che ciò può comportare; e con le soddisfazioni annesse a ogni conquista raggiunta senza mistificazione. 

Kevin è il più cerebrale dei 4, il meno interessante come personaggio puro, ma quello che funge da motore iniziale dell’azione degli amici, da centro gravitazionale (dove Stifler invece è il satellite); l’ideatore del patto per il sesso che da il via all’azione, alla risoluzione dei conflitti interiori e al cambiamento. Il suo arco narrativo è focalizzato sulla linea d’ombra tra desiderio e rispetto; superata la quale – con il fremito sessuale nei confronti della fidanzata Vicky che recede nell’accettazione della dimensione amorosa; chiave di volta della relazione uomo-donna compiuta – Kevin si fa adulto perché impara a incorporare i desideri altrui in sé, a rispettare la controparte, e non più a pretendere che la pura brama carnale – destinata a rimanere inespressa se priva di corpo relazionale – sia cartina tornasole di un rapporto funzionante. La scena chiave che segnala il superamento della linea è quella, immediatamente precedente al rapporto sessuale che corona il mutamento interiore, in cui il fratello di Stifler – un bambino – esce dall’armadio della stanza in cui Kevin e Vicky si apprestano a consumare e viene sbattuto fuori dalla porta. Esce il bambino, entra l’adulto.

Torniamo al nostro protagonista in disguise Oz. Il nome è un’altra delle citazioni cinefile sparse per American Pie e dice già molto della dimensione del personaggio: Oz, come la Dorothy protagonista di analogo coming of age nel Paese del Grande e Potente Mago, raggiunge l’età adulta incorporando in sé la magia, intesa come sensibilità/livello percettivo superiore e capacità di discernere le cose nella loro natura più stratificata e al contempo sincera. La dimensione magica – in questo senso molto umano – di Oz viene confermata nella prima scena che segna il suo percorso di trasformazione interiore, dal ragazzo macho che era (GnoccBuster, alter ego fallimentare subito abbandonato; dietro consiglio di una ragazza del college, quindi più grande, quindi più consapevole. E donna) all’uomo sensibile e multiforme che diventa (del trattamento esecrabile che subisce il personaggio nei vari sequel è meglio invece tacere). E così lo troviamo, pochi minuti (cinematografici) dopo, cantare Do You Believe In Magic? nel coro del liceo, con un passaggio repentino dalla dimensione della materialità sportiva a quella dell’intimità artistica. Il mettersi in gioco con il canto diventerà per lui occasione, come rivela alla futura fidanzata Heather (anche lei cantante nel coro e catalizzatrice del suo cambiamento) di scoprire una parte di sé che neanche credeva possibile.

Il rapporto Heather-Oz è il nucleo del film, la sottotrama più potente che riverbera sulle altre dando lo spin decisivo allo sviluppo narrativo e tematico. È una storia piccola, basilare se vogliamo, ma è quella giusta per coronare e portare a destinazione l’impalcatura del racconto. C’è una componente di verismo nella “banalità” con cui viene messa in scena: campi/controcampi basici; incontro/scontro/riappacificazione/lieto fine; lui belloccio lei nerdhipster ante litteram. Il campionario degli stereotipi è completo. Eppure l’angolo di verità intercettato, per quanto limitato, risuona, perché ha a che fare – oltre che coi meccanismi del cinema classico, comunque rispettati – con la dolce malinconia che è la pasta dei ricordi. Quando guardiamo con meraviglia all’adolescenza da una parte ci diciamo che no, non è possibile che certe cose siano state belle come le ricordiamo; il filtro distorcente della memoria restituisce immagini più incontaminate, più estatiche dei veri momenti da noi vissuti. Al contempo sappiamo che davvero da adolescenti eravamo in grado di vedere attraverso, di respirare più in profondità, di sentire il cuore dietro pelle, muscoli e scheletro. Il ricordo resta in quella terra di mezzo tra iperrealismo e fiaba.

E così Oz e Heather vivono la loro storia – l’happy ending, in particolare, affacciati su un lago che è il non luogo del ricordo, che non ha tempo –  in una dimensione fiabesca, quella del primo grande amore che tutti abbiamo vissuto. Quella della magia, della reciproca accettazione-comprensione-sintesi tra uomo e donna che è possibile solo da adolescenti, quando ci si immerge l’uno nell’altra abbandonandosi e dando vita a un tutto che fluisce e che è somma e non dispersione.

02/22/2021
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